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Lecture Willy Brandt del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “Verso l’Unione Politica:il processo di formazione di una leadership europea”

    
Berlino, 01/03/2013

    


Ringrazio vivamente il professor Olbertz per le sue parole e per l’accoglienza che mi ha riservato in questa storica Università, che è divenuta da tempo centro di riferimento del dibattito sull’Europa e nella quale sono già stato generosamente ospitato e ascoltato.


Al Presidente Thierse sono riconoscente per l’onore concessomi, a nome della Fondazione intitolata all’indimenticato Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca e Premio Nobel per la Pace, di svolgere questa Lecture Willy Brandt. Sì, caro amico Thierse, sono stato legato da ammirazione e crescente affinità ideale e politica a Willy Brandt, ed ebbi con lui come Presidente dell’Internazionale Socialista schietti e proficui colloqui personali e incontri formali, in occasione del Congresso di Stoccolma e di diverse sessioni del Consiglio dell’Internazionale Socialista cui venni invitato come osservatore per il Partito Comunista Italiano.


È rimasto impresso nella mia memoria soprattutto un singolare incontro con lui, per la straordinaria coincidenza con lo storico evento della caduta del «muro di Berlino». Avevamo mesi prima concordato di discutere da vicino in modo approfondito il tema del rafforzamento dei rapporti del PCI con l’Internazionale Socialista, nella prospettiva di una vera e propria adesione. L’appuntamento venne fissato per il giorno 9 novembre 1989 alle ore 14.00, a Bonn, nell’ufficio di Brandt al Bundestag. Discutemmo di tutto a lungo, in termini di piena reciproca apertura e comprensione, per ben due ore, non immaginando che di lì a poco – dopo che io ero appena ripartito da Bonn per l’Italia – la storia avrebbe conosciuto un’improvvisa, esaltante svolta verso la libertà e l’unità per tutta la Germania e quindi per l’Europa.


E infine, salutando qui con grande piacere Egon Bahr – vicinissimo e prezioso collaboratore di Brandt nell’azione politica e di governo e nell’impegno europeista – rivedo e provo nuovamente la nostra commozione nell’incontrarci a Berlino per l’estremo omaggio a Willy, cui io partecipai, da Presidente della Camera dei Deputati, in rappresentanza dell’Italia.


Grazie a voi tutti: anche per la pazienza con cui vorrete seguire il discorso che ora inizio.


* * *
La crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, il suo rapido propagarsi innanzitutto all’Europa e le sue più vaste ricadute, tali da farne un fenomeno globale, hanno profondamente scosso la costruzione europea, ne hanno mutato il corso, l’hanno spinta in direzioni impreviste. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se si sia riaperto il discorso sull’Unione Politica come sbocco cui non può non tendere il processo di integrazione avviato nel 1950. Quel processo ha avuto da quando è nato una dimensione politica. Le nostre preoccupazioni e discussioni possono concentrarsi – come è avvenuto negli ultimi anni – sulla moneta, sulla finanza, sull’economia, ma il progetto in cui ci siamo impegnati e che vogliamo portare avanti, è pur sempre un progetto politico. Se politica è agire in società – moltitudini di uomini e donne – secondo regole di libertà e solidarietà, se politica è costruire istituzioni e governarle, se politica è coltivare relazioni tra popoli e tra Stati, come si può non vedere che la costruzione europea è stata e rimane – al di là di ogni tecnicalità – un processo politico, che si regge su idealità politiche e che esige leadership, guida politica? L’Europa come Unione Politica è dunque sempre rimasta e più che mai si presenta all’ordine del giorno del nostro impegno di forze responsabili del progetto europeo.


E dunque: Unione Politica. Permettetemi di ripercorrere questo sentiero attraverso le pagine di quel grande protagonista della storia del Novecento che è stato Jean Monnet. Vedete, di fronte a tante disinformazioni e disaffezioni rispetto alla scelta europeista, ci interroghiamo sul come colmare un vuoto di pedagogia che è stato gravissimo e di cui si pagano oggi le conseguenze nel rapporto con le generazioni più giovani. Ebbene, è un vuoto che si può colmare solo mettendo in circolazione quella conoscenza storica ricavabile per fortuna da appassionate testimonianze e magistrali sintesi come le Memorie di Jean Monnet. Perché vi si è attinto e vi si attinge così poco?


Ebbene, in un capitolo di quel gran libro, dedicato proprio a «l’Unione Politica», si ricostruiscono puntualmente fasi e vicende della costruzione europea. E scrivendo nel 1976, Monnet non esita a trarre un bilancio senza infingimenti: «la storia dei tentativi di unione politica dell’Europa è stata una lunga serie di delusioni». Il primo tentativo fu quello che si associò al progetto istitutivo di una Comunità Europea di Difesa, che avrebbe dovuto in qualche modo coronare la riconciliazione tra Francia e Germania e fare da cornice di garanzia per il già deciso riarmo di quest’ultima. Alla creazione della Comunità di Difesa era stata associata – su impulso e col contributo dell’Italia, e per essa di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli – la previsione dell’elezione a suffragio universale di un’Assemblea Comune e dell’avvio di un’organizzazione federale, fondata sul principio della separazione dei poteri e dotata di un Parlamento bicamerale. Come si sa, il tutto cadde, fallì e quindi ci si concentrò sul consolidamento della Comunità del Carbone e dell’Acciaio, e a partire dal 1957 sul decollo della più impegnativa Comunità Economica Europea.


Ma se il tentativo della Comunità Europea di Difesa, all’inizio degli anni ’50, risultò prematuro e mal gestito, un’occasione nuova sembrò presentarsi tra il 1960 e il 1962 nei termini della possibile creazione di un’entità politica al livello dei Capi di governo dei sei Paesi della Comunità. Fatali furono tuttavia le ambiguità francesi sul ruolo da riconoscere alle istituzioni sovranazionali, le rigidità della visione gollista di un’Europa degli Stati. Monnet considerò allora la «cooperazione come tappa necessaria, e un’ipotesi di confederazione europea» come solo sbocco realisticamente sostenibile.


Eppure, egli era stato l’ispiratore e l’estensore di quella Dichiarazione Schuman che aveva sancito l’obbiettivo della «federazione europea». Ed aveva sempre guardato con simpatia e rispetto a quanti volevano fin dall’inizio spingersi senza indugio sulla strada dell’integrazione politica: tra questi l’italiano Alcide De Gasperi, che Monnet definì «uomo di grande distinzione di spirito» impegnato a lavorare «in profonda intesa con Adenauer e Schuman».


Ma il fallimento della Comunità Europea di Difesa aveva rafforzato Monnet nel suo approccio realistico, così da fargli ribadire ancora nel 1958 la convinzione che «non fosse possibile bruciare le tappe» del cammino verso l’unione politica, in quanto esso era legato all’effettivo avanzamento dell’unione economica. E ancora nello scrivere quasi vent’anni dopo le sue Memorie, egli insisté sulla necessità di «condurre a termine innanzitutto l’unione economica per ricercare quindi le forme di una unione più completa e profonda, federale o confederale non avrei saputo dirlo».


Ebbene, ci si può chiedere se oggi – essendo passata tanta acqua sotto i ponti, nel corso di oltre un trentennio – quelle parole di Monnet non presentino un forte sapore di attualità. Non siamo forse precisamente impegnati a condurre a termine innanzitutto l’Unione Economica e Monetaria, la cui incompiutezza e contraddittorietà è venuta così drammaticamente in luce negli ultimi anni con la crisi del debito sovrano e della crescita in Europa? E non avendo peraltro Monnet mai pensato che l’unione politica sarebbe scaturita meccanicamente dal lento procedere delle «solidarietà di fatto», ma ritenendo egli stesso che essa richiedesse «uno specifico atto creativo comportante una nuova delega di sovranità», non è forse venuto oggi il momento di prepararlo, pur concentrando i nostri sforzi sul completamento dell’Unione Economica e Monetaria?


Prima di tornare su questi interrogativi di scottante attualità e di vitale interesse per il futuro, mi pare utile richiamare a grandi linee le novità intervenute nell’assetto istituzionale europeo, a partire dall’ultima «invenzione» di Jean Monnet. La sua idea, nel 1973-’74, fu quella di istituire un «organo supremo di direzione dell’Europa» in quella che egli definiva una «fase difficile di transizione tra la sovranità nazionale e la sovranità comune».


Si trattava di superare da un lato il carattere, non concludente e poco produttivo, dei vertici dei Capi di Stato e di governo dei Paesi membri della Comunità (divenuti nove con l’ingresso della Gran Bretagna, dell’Irlanda e della Danimarca) – vertici votati a semplici discussioni generali – e di superare dall’altro le strettoie settoriali delle varie formazioni del Consiglio dei Ministri, nelle quali ciascuno agiva da difensore degli interessi nazionali. I nove Capi di Stato e di governo avrebbero dovuto costituirsi in «Governo europeo provvisorio». Quest’ultimo avrebbe dovuto definire il progetto di Unione Europea e collocare tra le istituzioni dell’Unione «un governo europeo e un’Assemblea parlamentare eletta a suffragio universale».


Occorreva, in sostanza, «un inizio di autorità europea», fino ad allora assente. Al luogo e al momento della discussione dovevano corrispondere il luogo e il momento della decisione. «Le istituzioni europee attualmente esistenti» – fu questa la considerazione ancora una volta realistica di Monnet – «non hanno oggi abbastanza forza» per porre da sole mezzi sufficienti al servizio degli interessi comuni dei Paesi della Comunità. «Ma appoggiandosi su di esse, i Capi di governo possono farlo». L’idea si fece strada, anche se le formulazioni di Monnet subirono qualche attenuazione (non passò, ad esempio, il nome di «Governo provvisorio europeo»), e ottenne il consenso dei tre Capi di governo principali – il francese, il tedesco, l’inglese: dapprima Pompidou, Brandt e Heath; poi, dal 1974, Giscard d’Estaing, Schmidt, Wilson. Il 10 dicembre 1974 nacque il Consiglio europeo.


I punti fermi che marcavano senza ambiguità il significato di quell’innovazione, furono l’impegno a rispettare e valorizzare il ruolo della Commissione e a preparare l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, la sinergia tra il nuovo organismo e le istituzioni comuni di stampo sovranazionale, la conferma del metodo comunitario. Quanto poi ciò sia mutato successivamente, soprattutto nella caratterizzazione e nel peso del Consiglio europeo – divenuto stella fissa e dominante del processo decisionale dell’Unione – è altra questione, che naturalmente affronterò più avanti.


Ma certamente, a partire dal 1979, l’assemblea parlamentare eletta direttamente dai cittadini di tutti gli Stati membri divenne un punto fondamentale di riferimento in senso democratico e di garanzia nei confronti di deformazioni in senso intergovernativo della costruzione europea. La Commissione Europea conobbe a sua volta per oltre un decennio, tra gli anni ’80 e ’90, una crescita evidente di autorevolezza e capacità d’iniziativa sotto la guida di Jacques Delors.


Infine, con il Trattato di Maastricht, la nascita della moneta unica e l’istituzione della Banca Centrale Europea, venne compiuto un autentico balzo in avanti sulla via dell’integrazione, si realizzò un «approfondimento» del processo europeo che precedette e accompagnò l’«allargamento» e la trasformazione della Comunità a 15 Stati membri in Unione a 25 e ben presto a 27. La chiave del progetto europeo secondo la concezione di Monnet e degli altri pionieri – «delega di sovranità ed esercizio in comune di questa sovranità delegata» – era valsa ad aprire i cancelli di un’area cruciale, gelosamente custodita come loro storica prerogativa dagli Stati nazionali: l’area della sovranità monetaria. Solo più tardi – dopo il 2008 – avremmo imparato a nostre spese che anche altre aree contigue dovevano essere aperte all’esercizio di una sovranità condivisa.


Le innovazioni e gli sviluppi degli anni ’70 e ’80 furono possibili grazie alla sintonia tra personalità politiche di forte rilievo. Ho ricordato i nomi citati da Monnet: tra i quali quello di Willy Brandt. E mi piace ricordare le parole che a lui in particolare dedicò quel grande artefice francese dell’Europa unita, che fu straordinario anche nel giudicare gli uomini e nel persuaderli. «Brandt è uno degli uomini di Stato più generosi che io conosca, uno dei rari che siano capaci di dare: egli l’ha mostrato, e il suo coraggio ha ricevuto la ricompensa che meritava nella stima profonda che gli riservano i suoi contemporanei. Il suo temperamento umano, troppo umano, gli rendeva più difficile che per altri l’azione politica. Io l’ho sempre visto aperto al cambiamento e non dubitavo che avrebbe fatto suo un progetto destinato a suscitare una nuova dinamica». E in effetti Brandt diede piena adesione al progetto istitutivo del Consiglio europeo, considerandolo «un passo essenziale sulla via» – appunto – «dell’Unione Politica».


Ho voluto rendere omaggio alla figura di Willy Brandt, cui questa Lecture è dedicata, con le parole alte ed eloquenti di chi lo ebbe accanto come protagonista dell’impresa europea. Ma ho nello stesso tempo voluto così sottolineare quale comune sentimento e comune visione dell’Europa legasse i leader nazionali e comunitari in decenni tra i più fecondi del processo d’integrazione. E in uno sguardo che giunge fino al Trattato di Maastricht non posso non ricordare François Mitterrand ed Helmut Kohl, e gli italiani Craxi ed Andreotti. Brandt fu anche da parlamentare europeo tra i più conseguenti fautori di una prospettiva di Unione politica, sostenendo tra l’altro l’impegno di Altiero Spinelli; e diede un peculiare contributo alla visione più ampia del ruolo dell’Europa per la costruzione di un mondo di pace, più unito e più giusto.


Insomma, abbiamo visto in certe fasi emergere e formarsi quella che possiamo chiamare una leadership europea, così come abbiamo invece sperimentato nella prima parte del nuovo millennio il decadere di quel processo, l’inaridirsi dell’immagine dell’Europa proprio mentre essa si unificava ed era chiamata ad assumere un ruolo più incisivo su scala mondiale. È da quell’inaridimento che è venuto in gran parte il disincanto crescente nelle nuove generazioni verso l’idea d’Europa e verso le istituzioni in cui essa si è via via incarnata.


Evitiamo banali fraintendimenti. Non si tratta di esprimere valutazioni, tanto meno da parte mia – senza avere alcun titolo per farlo, e sapendo che non avrebbe senso farlo – sull’idoneità e qualità di chi è stato negli ultimi tempi chiamato ad assumere, specie se per volontà popolare democraticamente espressa, i più alti incarichi di direzione nei governi nazionali e nelle istituzioni europee. La questione su cui interrogarci è quella della trama dei rapporti tra loro, delle motivazioni e delle modalità del loro stare insieme e operare insieme in nome dell’Europa. Quanto si è venuta logorando quella trama unitaria, quanto hanno finito per prevalere motivazioni nazionali ristrette, quanto si è perso il senso dell’orizzonte più ampio delle responsabilità dell’Europa e delle sfide che ha da raccogliere?


Ciò significa che la riflessione, le correzioni, e in qualche modo un nuovo inizio, debbono coinvolgere contenuti e indirizzi delle politiche europee, dell’azione europea, nodi istituzionali irrisolti, prospettive oramai da definire per il cammino e l’avvenire dell’Unione. E attraverso una tale riflessione, occorre forgiare una rinnovata volontà politica comune: è di ciò che c’è disperato bisogno.


Ed è una leadership collegiale, dotata di ben più forte volontà politica comune e abilitata dunque a parlare e ad agire davvero in nome dell’Europa, che viene sollecitata da altri fondamentali attori sulla scena internazionale. In particolare, mi preme dirlo, dai più sensibili leader e opinionisti americani, a cominciare dal Presidente Obama e dall’Amministrazione che egli guida. Siamo ben al di là della domanda, non solo ironica, sul numero di telefono da chiamare per parlare con l’Europa. Quel che ci si attende da noi europei è la forza di una comune linea politica e capacità di azione, la forza di una leadership credibile, che operi attraverso istituzioni efficienti e sulla base di un più alto grado di consenso e di partecipazione dei cittadini.


Ora, non c’è dubbio che negli ultimi due anni siano state concertate, tra Capi di Stato e di governo, decisioni innovative e coraggiose per mettere in maggiore sicurezza la conquista della moneta unica e per completarla con le indispensabili componenti, a lungo mancate, di un’effettiva integrazione finanziaria e capacità fiscale, gestione integrata delle politiche di bilancio e delle politiche economiche, unione bancaria. Salvo le opportune modifiche circa le persistenti debolezze di qualcuna di queste componenti, ci si è mossi nella direzione giusta: ma attraverso tensioni e contraddizioni significative. Resta il dubbio di quanto ci sia stato – nella sfera decisionale del Consiglio Europeo – di adesioni obbligate e di ambiguità e remore magari inespresse, e quanto di dubbi e incertezze circa gli sbocchi successivi cui tendere specie sul piano istituzionale e al fine di colmare lacune e scompensi del processo di formazione delle decisioni. Insomma, sono rimasti evidenti i limiti relativi all’esistenza di una comune e coerente volontà politica.


È mia convinzione che i fondamentali presupposti di un rilancio e conseguente sviluppo del processo di integrazione siano seriamente condivisi da quanti hanno oggi responsabilità istituzionali nei maggiori Stati membri dell’Unione o del suo nucleo più avanzato, l’Eurozona. Parlo innanzitutto del presupposto di un’assoluta convinzione che la scelta europeista è stata salvifica per i nostri paesi: «lo squillante “sì” all’Europa dei tedeschi occidentali è un tesoro della storia della Germania» – ha detto il Presidente Gauck nel suo discorso per il giuramento da Capo dello Stato; ed egli ha perciò espresso gratitudine per l’opera di Konrad Adenauer.


Vorrei notare che per tutti i padri fondatori dell’Europa comunitaria quella scelta ne esaltò la statura nei rispettivi paesi. Poi è purtroppo accaduto che nei tempi più difficili e critici per il nostro continente, ci siano stati leader nazionali che hanno trovato conveniente non perorare troppo la causa europea e anzi fare delle istituzioni europee il capro espiatorio della loro mancanza di coraggio, scaricando su di esse la responsabilità di ogni decisione impopolare. Occorre che tutti i leader politici nazionali ritrovino l’orgoglio della scelta europeista non soltanto come sola risposta lungimirante alla catastrofe della guerra e ai travagli e rischi del dopoguerra, ma come sola risposta valida alle nuove e così diverse sfide dell’oggi.


E se – cito ancora il Presidente Gauck – si accresce nei tempi di crisi «la tendenza a cercare rifugio nell’ambito dello Stato nazionale», «il nostro motto» dev’essere, specialmente in tempo di crisi, “vogliamo osare più Europa”».


L’esplicito e netto rinnovarsi del convincimento europeistico da parte delle più alte espressioni istituzionali della Germania federale è assolutamente decisivo, per tutto ciò che questo Paese ha rappresentato fin dall’inizio nella costruzione di un’Europa unita. E dobbiamo tanto più prendere sul serio qualsiasi affermazione in tal senso quanto più la vediamo obbiettivamente e schiettamente motivata. Questo vale in particolare per le affermazioni e argomentazioni del Cancelliere signora Merkel. Esse meritano il massimo rispetto, al di là di ogni polemica politica che possa investirla anche fuori dalla Germania; e rivestono il più grande interesse anche perché chiaramente riflettono il comune sentire di tutte le fondamentali forze politiche e sociali tedesche.


Ancora di recente, dinanzi al Forum Economico Mondiale, il Cancelliere ha crudamente ribadito le cifre e i fatti: il drastico restringersi del peso della popolazione e del prodotto lordo dell’Europa rispetto al totale mondiale. E ha voluto aggiungere che la stessa Germania, cioè la maggiore economia in Europa, conta appena un po’ più dell’uno per cento della popolazione del globo, e ne ha tratto la inconfutabile conclusione – che già le avevo sentito esprimere off-the-record – che solo se lavoreremo insieme come europei potremo esprimere i nostri comuni interessi e far valere il nostro ruolo nel mondo qual è e quale tende ancor più a diventare. Solo se lavoreremo insieme e bene, aggiungo, affrontando le nostre insufficienze e i nostri problemi in tutta la loro complessità, mettendo alla prova e valorizzando tutte le nostre potenzialità.


Siamo d’accordo, e non vedo come si possa non esserlo se si ragiona sulla realtà globale nella quale, ci piaccia o no, dobbiamo muoverci. Nessuno Stato nazionale membro dell’Unione, nessun singolo Paese europeo, neppure il più forte e dinamico, può con le sue sole forze reggere le sfide dell’oggi e del domani e contare nel mondo: nemmeno, mi consentano di dirlo gli amici del Regno Unito, puntando sulle rendite di posizione di un passato di grande potenza pluricontinentale.


Tuttavia, da affermazioni serie e motivate come quelle che ho citato e apprezzato, bisogna davvero saper trarre tutte le conseguenze. E se è vero che in quanto europei dobbiamo operare di concerto e solidalmente, sentendoci “tutti nella stessa barca”; se è vero che anche la più robusta e competitiva economia europea, quella tedesca, è esposta ai contraccolpi della pesante onda recessiva che ha investito importanti Paesi del continente come l’Italia, sarebbe lecito attendersi – lo dico senza voler semplificare i relativi problemi – un impulso espansivo da parte della Germania, come contributo a una reale, e non solo proclamata, ripresa della crescita e dell’occupazione in Europa.


Inoltre – diciamocelo francamente – troppo forte è lo scarto tra le convinzioni che esprimiamo circa le esigenze e le missioni attuali dell’Europa, e certi comportamenti che riflettono meschinità ed egoismi nazionali ancora duri a morire. Pensando alla vicenda dei negoziati recenti per un accordo, in sede di Consiglio europeo, sulle prospettive finanziarie ovvero sul bilancio dell’Unione, mi è tornato alla mente, e mi è venuto da rileggere, il seguente passaggio delle Memorie – ancora una volta – di Jean Monnet. Ascoltate: «La ricerca dell’interesse comune non esclude – al contrario! – che ciascuno tenga conto della posizione dell’altro, ma non deve mai prendere la strada del mercanteggiamento. Restiamo attaccati al nostro metodo, che consiste nel determinare innanzitutto quel che è valido per l’insieme dei Paesi riuniti nella Comunità, e nel misurare poi lo sforzo che questo o quello dovrà in particolare compiere, senza ricercare delle vane meticolose equivalenze».


Sì, è venuto il momento di liberarci di queste prassi anacronistiche, in cui si riassumono i limiti e i vizi dei compromessi intergovernativi. È venuto il momento di recuperare e coltivare il senso dell’interesse comune europeo, con cui possono armonizzarsi e non confliggere gli interessi nazionali, se intesi correttamente senza fuorvianti pretese e forzature.


Il primo, concreto campo applicativo di questa più alta visione comune delle nostre responsabilità e delle scelte da affrontare, è costituito oggi dall’insieme delle azioni da compiere sulla base del documento dello scorso dicembre «Verso una genuina unione economica e monetaria», che reca le firme – insieme con quella del Presidente Van Rompuy -dei Presidenti delle altre tre istituzioni, Commissione, Eurogruppo e Banca Centrale Europea. Non c’è dubbio che debbano trovare in quel quadro naturale approdo tutti i passi via via già fatti di fronte alla crisi di questi anni. Ed è vero che per ricostruire un clima di fiducia nel progetto europeo, è decisivo sollevare i cittadini, le famiglie, le imprese dall’assillo dell’instabilità finanziaria, in cui si sono dibattuti numerosi nostri paesi, e mostrare la rinnovata capacità delle istituzioni e delle iniziative comunitarie di produrre crescita, benessere, equità.


E in questo senso le previsioni ancora non sono confortanti in questo inizio del 2013. Rilanciare lo sviluppo e portarlo a ritmi soddisfacenti appare molto più arduo di quanto non dicano le pur lodevoli dichiarazioni d’intenti. Solo nell’ultima parte dell’anno dovrebbe avviarsi una ripresa, grazie ad alcuni fattori indicati di recente dal Presidente Draghi, tra i quali il sostegno che viene dato alla domanda interna dalla linea di politica monetaria accomodante della stessa BCE.


È giusto, certo, insistere sull’effetto che la riduzione dei disavanzi pubblici, una maggiore apertura dei mercati alla concorrenza e riforme come quelle relative al mercato del lavoro, possono sprigionare ai fini della crescita economica e della creazione di occasioni di lavoro.


Occorre tuttavia impegnarsi a fondo anche per individuare spazi più ampi per politiche di investimento e di occupazione al livello europeo compatibili con una linea di persistente rigore e continuità per il superamento della crisi del debito sovrano nella zona Euro. Ed è prevedibile che il Parlamento europeo sollevi – nell’esaminare il progetto di intesa sul bilancio dell’Unione – anche la questione della possibilità di concreta realizzazione di diversi programmi d’intervento, in settori strategici, da tempo elaborati e annunciati dalla Commissione.


Per ricostruire un clima di fiducia nella costruzione europea, è egualmente essenziale rafforzare l’attenzione per l’acuirsi, in questi anni di crisi, di fenomeni di disuguaglianza e disagio sociale, di rischi di povertà, di problemi di esclusione di larghi strati di giovani dal mercato del lavoro. In una Unione Europea che ha abbracciato la strategia e i valori di una economia sociale di mercato, non si può non gettare l’allarme per il configurarsi in Europa di una grave questione sociale, la cui principale espressione sembra quella della tendenza delle nostre economie, o di una parte di esse, a generare – anche nel riprendere un sentiero di crescita – meno occupazione, scarsa occupazione, cattiva occupazione.


La priorità è dunque agire per dare risposte efficaci a queste questioni di crisi sociale, finanziaria ed economica ancora incombenti e dominanti nella vita della nostra Europa. Ritengo però che altre due esigenze debbano trovarci sensibili e impegnarci nel breve e nel medio termine.


In primo luogo, l’esigenza di ristabilire – nel rapporto con i cittadini, con l’opinione pubblica, con le assemblee rappresentative dei nostri Paesi – l’immagine e la consapevolezza del progetto e del processo di integrazione europea in tutta la loro ricchezza. Non mi stancherò di ripetere che abbiamo in sessant’anni e più, progettato e costruito non solo l’Europa del mercato comune senza confini e barriere – di quel che è divenuto e si va completando come mercato interno; e nemmeno solo l’Europa della moneta unica, pur proiettata oggi verso il più ampio orizzonte dell’Unione Economica e Monetaria.


Abbiamo progettato e costruito un’Europa di pace, ripudiando nazionalismi aggressivi e distruttivi; un’Europa fondata su valori di libertà e di democrazia inseparabili da tutti gli altri che vi si sono associati nell’esperienza storica della civiltà occidentale. L’Europa del diritto comunitario, inedito e originale edificio giuridico. L’Europa della Carta dei diritti fondamentali. L’Europa dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.


Ci siamo sforzati – ancora parole di Monnet! – non di coalizzare degli Stati, ma di unire degli uomini, attraverso grandi flussi di libera circolazione delle persone e di incontro e scambio tra giovani.


E abbiamo concepito un’Europa unita come protagonista della vita internazionale attraverso una sua politica estera e di sicurezza comune.


La consapevolezza di questo complessivo, irrinunciabile patrimonio di conquiste e potenzialità va sempre, costantemente alimentata, specie nella coscienza delle nuove generazioni: sempre, anche quando siamo dominati da emergenze finanziarie ed economiche assillanti.


La seconda esigenza da considerare vitale – anche nel perseguire come prioritari gli obbiettivi di un’autentica Unione Economica e Monetaria – è quella della legittimazione del consenso, della partecipazione, su cui l’Unione deve fondarsi se vuol esprimere e garantire democrazia. E qui si pone e risulta ineludibile, oggi più che mai, il discorso sulle istituzioni, sulle regole, sui canali di rappresentanza e di espressione della volontà popolare, delle idee e delle aspirazioni dei cittadini. In questo campo si sono prodotti vuoti e distorsioni, di cui largamente si nutrono le posizioni di disincanto e sfiducia verso la costruzione europea.


Anni fa, da Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento europeo, ebbi modo di confrontarmi col tema – allora lo si definiva così – del “deficit democratico” e mi imbattei nella tesi della “output legitimacy”. L’Unione Europea, cioè, si legittimerebbe per quel che produce di risultati concreti, di conquiste tangibili; se produce, e quindi acquisisce consenso, essa risolve di fatto il problema della sua legittimazione. Tesi, a mio avviso, inaccettabile, anche se nei “decenni d’oro” della crescita economica e civile dell’Europa comunitaria, questa ha goduto dei più alti livelli di adesione.


No, abbiamo bisogno di un nuovo, ben più riconoscibile e soddisfacente assetto e modo di operare delle istituzioni europee, abbiamo bisogno di una sostanziale europeizzazione della politica e dei partiti; di un aperto e vitale spazio pubblico europeo; di una dialettica politica e sociale che superi asfittici ambiti nazionali per farsi anch’essa davvero europea.


È parte decisiva di uno sviluppo in questo senso il rafforzamento della dimensione parlamentare dell’Unione, oltre i progressi già compiuti nel riconoscimento del ruolo e dei poteri del Parlamento europeo e oltre l’ancora stentato raccordo tra esso e i Parlamenti nazionali. Ma neppure questo basta. Si fa pressante – inutile tentare di sfuggirvi – il tema di una rivisitazione dell’architettura istituzionale dell’Unione, di una sua più coerente caratterizzazione, di quella “costituzionalizzazione” che imperfettamente si tentò nel 2002-2003 e quindi fallì. Ed è, nel suo complesso, un tema che fa tutt’uno con quello, da cui sono partito, dell’Unione Politica.


«La mia visione» – ha affermato q